Il 24 marzo 1980, alle ore 18.25 nella cappella dell’Ospedaletto di San Salvador, a breve distanza dalle due stanzette dove egli viveva, viene ucciso mons. Oscar Arnulfo Romero, nato il 17 agosto 1917 in un paesino ai confini estremi del Salvador, Ciudad Barrios.
Aveva studiato a Roma, e lì ordinato sacerdote nel cuore della seconda guerra mondiale, il 4 aprile 1942. Parroco, collaboratore di Vescovi, vescovo egli stesso della diocesi di Santiago de Maria, viene nominato arcivescovo di San Salvador, capitale del piccolo stato dell’America Centrale, El Salvador, il 3 febbraio 1977.
In una situazione politica ed economica difficilissima, mons. Romero sceglie di operare per la giustizia e la pace, dinanzi ad una condizione di estrema miseria della maggioranza del popolo e all’arroccamento nella difesa delle proprie posizioni di privilegio da parte della ristretta parte della popolazione che detiene la quasi totalità della ricchezza del paese.
Ha sempre cercato di dialogare con tutti, ma ha fermamente operato perché il popolo dei poveri, cioè la quasi totalità dei salvadoregni, avesse il necessario per vivere, vedesse rispettato il diritto alla vita e alla libertà. Predicare il Vangelo, sganciandosi da una accondiscenda verso i ricchi del paese, veniva visto come un attentato alle posizioni consolidate dei benestanti.
Così vengono uccisi sacerdoti, parroci, laici, perché hanno la Bibbia con sé, perché leggono e predicano la Bibbia e il Vangelo, vengono profanate chiese e tabernacoli.
Le omelie di Romero, trasmesse per radio, sono la predicazione viva del Vangelo in una situazione di grave ingiustizia e povertà. E questa voce libera ed evangelica si vuole mettere a tacere.
Le prese di posizione di Romero sono chiare, libere, ma sempre evangeliche.
Egli chiama al perdono sempre, alla riconciliazione, al rispetto dei diritti umani, della libertà di ogni uomo e di ogni credente. Le minacce che riceve non lo intimoriscono, gli inviti a mettere in salvo la propria vita abbandonando il suo paese li sente come un abbandono del suo popolo per salvare se stesso.
E li rifiuta.
Viene ucciso dopo l’ultima sua predica, al momento dell’offertorio, mentre innalza le ostie e il vino verso l’alto. E il suo sangue si mescola con quelle ostie e con quel vino che doveva diventare il corpo e sangue di Cristo.
È stato un pastore, un uomo di grande fede e di grande preghiera, un testimone del Vangelo, dell’amore di Dio per tutti, particolarmente dei poveri e degli oppressi.
Solo da un uomo di grande fede sono potute uscire le parole pronunciate il giorno prima della sua uccisione, nell’ultima predica in cattedrale della sua ultima Quaresima:
“Dio vuole salvare il suo popolo rinnovando la storia. La storia non fallirà, è Dio che la conduce.
La Chiesa, popolo di Dio nella storia, è la pellegrina eterna della storia e va indicando in tutte le epoche quello che è riflesso del Regno di Dio e quello che non lo è. La Chiesa è a servizio del Regno di Dio. Questo deve essere lo sforzo dei cristiani: imbeversi del Regno di Dio e da questo impregnarsi del Regno, operare nella storia degli uomini.
Che bello il momento in cui l’uomo comprende che non è altro che uno strumento di Dio!
La sua vita dura tanto quanto Dio vuole che duri. Egli può tanto quanto Dio vuole che possa.
Possiede intelligenza nella misura in cui Dio gliela ha dato. Deporre tutti questi limiti nelle mani di Dio, riconoscere che senza di Lui non possiamo fare nulla.
Di qui, cari fratelli, si guarda con occhi diversi al mondo che ci circonda, di qui nasce una preghiera insistente, sempre più uniti a Dio.
Sono tanti quelli che lavorano uniti a Dio per migliorare questo mondo. Uniamoci anche noi a loro”.
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