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Voglio iniziare ricordando le leggi
razziali, emanate in Italia nel 1938.
Questi leggi proibirono a tutti gli ebrei di andare
a scuola; gli uomini e le donne non potevano più
lavorare in impieghi pubblici o privati.
E sono rimasti tutti senza lavoro. Hanno dovuto arrangiarsi
per poter vivere.
Io allora avevo 19 anni e sarei dovuta
andare all'università. Mi ero appena diplomata
come maestra. Ma per via di quelle leggi non sono
potuta andare all'università.
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Fortunatamente, avendo il diploma
di maestra, ho potuto insegnare nelle scuole
ebraiche così da aiutare i nostri ragazzi
a non rimanere ignoranti.
In
quel tempo io mi trovavo a Ferrara. E in quella
città gli ebrei erano tanti: in una cittadina
che contava 60.000 abitanti, gli ebrei erano
circa mille.
Ricordo
che alla fine dell'anno scolastico 1938-39 fu
permesso ai bambini ebrei di andare a sostenere
gli esami nelle scuole pubbliche.
Ma
dovevano entrare mezz'ora prima degli altri
e uscire mezz'ora dopo gli altri; per andare
in bagno dovevano essere accompagnati da un
bidello, per evitare il contatto con gli altri
bambini.
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Anche l'esame di maturità di terza
liceo non veniva fatto insieme agli altri. Si potevano vedere
tre, quattro, cinque ragazzi messi in un'aula
a parte, divisi dagli altri, in quella stessa scuola dove
qualche anno prima stavano tutti insieme seduti nello stesso
banco.
Quando
nel 1940 l'Italia è entrata in guerra, la vita per
noi ebrei è diventata ancora più difficile:
cominciavano a comparire le scritte, sui muri e all'ingresso
dei negozi, contro gli ebrei.
Ricordo
che un giorno facendo la strada per andare alla scuola ebraica,
passavo davanti ad una sala del cinema dove tante volte
ero andata a vedere i films, e vidi un cartello con la scritta:
"non sono desiderati né gli zingari né
i cani né gli ebrei". Capite? Gli ebrei venivano
dopo i cani!
Sui
muri si vedevano tante scritte contro gli ebrei: "abbasso
gli ebrei, fuori gli ebrei dall'Italia, morte agli ebrei".
Era veramente una cosa che ci faceva molto male.
Si
giunse, così, all'8 settembre del '43, quando l'Italia
si staccò dai nazisti firmando un armistizio con
gli Alleati (Americani, Inglesi, Francesi e Russi). Il re
di fronte alla catastrofe, preferì imbarcarsi su
una nave e andar via, lasciando la nazione in balia degli
eventi.
I
nazisti avevano occupato l'Italia. Nessuno sapeva cosa fare.
L'Italia era allo sfascio. Io mi trovavo a Ferrara e avevo
tanta paura: capivo che dovevamo nasconderci. Ricordo che
un prete ci aveva detto: "quando vengono i nazisti,
voi giovani scappate, perché correte un grande pericolo".
E
mio padre che era un benpensante diceva: "c'è
la guerra, le cose vanno male per tutti. Ma io perché
devo aver paura? Io non ho mai fatto male a nessuno".
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Ma proprio la notte dell'8 settembre
del '43, mentre dormivamo tranquillamente a casa e
c'era il coprifuoco, una forte suonata
di campanello ci svegliò tutti. Un uomo della
questura accompagnato da un soldato tedesco ci chiese
di aprire; aveva una lista di nomi, erano tutti nomi
di ebrei.
Erano
venuti per cercare mio nonno, morto da 23 anni, titolare
di una ditta di rappresentanze.
Mio padre era il gerente di questa
ditta, ma
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aveva continuato l'attività lasciando
il vecchio nome di mio nonno, Tullio Rabin, intestatario
della ditta, mentre mio padre si chiamava Carlo Levi.
Hanno
cercato dappertutto ma ovviamente mio nonno non l'hanno
trovato. Ricordo il passo chiodato del soldato che girava
per la casa, che mi rimbombava nella testa e che non ho
più dimenticato.
Se
ne sono andati ma a noi hanno tolto la tranquillità;
abbiamo capito che presto sarebbero venuti a cercare mio
padre. Non potevamo più restare a Ferrara. Dovevamo
partire. Tutti i giovani ebrei erano già stati arrestati.
Li hanno tenuti in prigione per due mesi e poi, consegnati
alle SS, sono finiti tutti ad Auschwitz.
E
così il 12 ottobre partimmo per Roma dove vivevano
degli zii. Essi pensavano che presto anche Roma sarebbe
stata liberata, dopo che alla fine di settembre i tedeschi
avevano dovuto abbandonare la città di Napoli. Ma
non sarà così rapida la liberazione.
Siamo
partiti scappando, nessuno doveva sapere dove andavamo.
Mio padre si procurò i biglietti per Arezzo e sul
treno chiese il prolungamento fino a Roma. Arrivammo dagli
zii il 13 ottobre, il 16 ottobre ci fu la prima deportazione
degli ebrei in Italia.
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Le autorità avevano fatto una legge
che obbligava il portiere dei palazzi
ad avere tutti i documenti delle persone che dormivano nel
palazzo. Si poteva andare a fare delle visite, ma se si
restava a dormire bisognava lasciare le carte di identità
in portineria.
La
casa degli zii era molto piccola, ci siamo arrangiati alla
meglio. Si dice che tutti gli ebrei sono ricchi, ma non
è vero. C'è chi è ricco, qualcun altro
di meno, c'è chi vive del suo lavoro e c'è
pure chi viene aiutato perché abbia un piatto caldo
tutti i giorni.
Anche
mio zio che era ingegnere, aveva perso il posto pubblico
nel 1938, si arrangiava facendo traduzioni, vendendo dei
quadri che gli venivano da alcuni amici di Napoli. E anche
noi dovevamo ora trovare un lavoro per sopravvivere.
Papà
è andato a cercare un amico con cui aveva fatto la
guerra del 1915/18, che si mise subito a disposizione: mio
padre l'avrebbe aiutato nell'amministrazione, mia sorella
piccola di 13 anni avrebbe fatto la baby sitter alla sua
bambina. Anche io avevo trovato da lavorare sia dando delle
lezioni private che aiutando una signora malata che aveva
bisogno di un aiuto completo.
Ricordo
la sera del 15 ottobre, la sera di quell'ultima cena a casa
degli zii. La cena era stata molto modesta; e la zia, che
era molto salutista, fece il conto delle valori nutritivi
incamerati e tirò fuori un sacchetto di noci, una
noce per uno per completare i valori nutritivi.
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Andammo a letto sereni. Alla mattina alle
6 fui svegliata di soprassalto per una lunga suonata di
campanello, quando ancora c'era il coprifuoco. In quel momento
non pensai al peggio, avevo solo paura che potessero prendere
mio zio.
Ricordando
quanto era avvenuto a Ferrara, dissi alla mamma: non voglio
sentire quel passo chiodato delle scarpe da soldato per
la casa. In camicia da notte scesi dal letto, aprii una
porta finestra che dava sul balcone e uscii per non sentire
quel passo. Sentii l'urlo della zia per avvertire che erano
i tedeschi. E immediatamente la finestra alle mie spalle
si chiuse.
Mia
sorella che si era precipitata giù dal letto anche
lei chiuse la finestra chiudendo anche i battenti interni
perché non mi vedessero. Io rimasi fuori e capii
subito che stavano portando via proprio tutti. I due soldati
SS urlavano parole incomprensibili che significavano "fare
presto, fare presto" con un tono così cattivo
che lo ricordo ancora. Da fuori al balcone sentii la mamma
che diceva: Ora il mio Carlo non lo vedrò più.
Carlo era il mio papà che non dormiva con noi ma
in casa del suo amico.
Non
so spiegarvi come feci a rimanere fuori al balcone mentre
mi portavano via tutti i miei familiari. Ero diventata come
una statua di sale, prigioniera della paura. Appoggiata
con l'orecchio vicino alla fessura della finestra cercavo
di sentire qualcosa. Ad un certo punto sentii il rumore
dell'altro balcone della cucina che veniva socchiuso e poi
gli ultimi passi e la serratura della porta che veniva chiusa
dall'esterno. Poi un silenzio assoluto.
Solo dopo seppi che mio cugino di 16 anni, mentre veniva
portato via dai tedeschi aveva pensato a me, lasciando socchiuso
il balcone della cucina e le chiavi di casa nascoste sotto
i miei vestiti.
Aspettai
un poco, c'era tanto silenzio; entrai in casa messa tutta
in disordine, valigie per terra. Corsi verso la porta ma
la trovai chiusa. E non sapeva ancora delle chiavi nascoste
lasciate da mio cugino.
Pensai
di telefonare a mio padre per avvisarlo del pericolo, ma
i fili del telefono erano stati tagliati. Pensai anche di
calarmi sul balcone del piano inferiore con due lenzuola
annodate. Ma quando andai per vestirmi, trovai nascoste
sotto i miei vestiti le chiavi di casa e una borsetta con
dentro pochi soldi e gioielli che potevano servire in momenti
così difficili.
Appena
uscita gli amici dello zio della porta accanto subito mi
aprirono e mi fecero telefonare al mio papà. Poi
mi chiesero di dare loro la carta di identità per
falsificarla. E cambiarono il mio cognome da Levi in Levigatti.
Andai
di corsa nella casa dove si trovava papà; ma lui
non c'era. C'era solo una vecchia signora di ottanta anni,
anche a lei dissi che doveva nascondersi perché i
tedeschi prendevano tutti, anche i vecchi e i malati.
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Ricordo ancora quello che era scritto
su un pezzo di carta trovato nel corridoio di casa
mentre uscivo: "Sarete
trasferiti altrove, avete 20 minuti di tempo per uscire
da casa; portatevi da mangiare per 8 giorni, una coperta,
soldi, gioielli, chiudete bene la porta di casa e
portatevi le chiavi di casa. Nessuno può rimanere
a casa, nemmeno gli ammalati più gravi perché
al campo c'è un'infermeria". E per questo
molti si illudevano di poter ritornare un giorno a
casa.
Quanto
al mio papà lo trovai sotto la porta di casa
dell'amico che gli aveva offerto un lavoro.
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Non sapeva quanto stava accadendo,
voleva parlare subito; aspettai
che fossimo in ascensore per spiegargli quanto era
successo: "papà, siamo rimasti soli, tu
ed io; li hanno portati via tutti". Solo allora
scoppiai a piangere facendo uscire tutte le lacrime
che avevo in corpo. La signora della casa che per
me si adoperò più di una mamma, tutto
il giorno ripeteva: "soffrirei meno ad avere
un morto in casa, perché la morte è
una cosa naturale, ma questa cattiveria degli uomini
è una cosa innaturale".
E
a quel tempo noi ancora non immaginavano quello che
accadeva nei campi di concentramento: pensavamo fossero
campi di lavoro. Dicevamo: certamente saranno trattati
come schiavi. Ma non sapevamo che invece erano campi
di eliminazione.
Gli amici che ci ospitavano ci fecero vedere una botola
nel soppalco, vi misero una scala perché in
qualunque momento di pericolo potessimo chiuderci
nel soppalco, ritirando la scala e chiudendo la botola.
Vi
racconto ora che cosa avvenne per la mamma e mia sorella.
Le persone che erano state prese dai nazisti erano
1230 persone. Furono condotte in un collegio militare
non lontano dalle carceri di Regina Coeli. Ad un certo
punto dissero: se ci sono dei cattolici fra di voi,
si spostino in un'altra stanza. Mia mamma non ebbe
il coraggio di andarci per timore di essere scoperta
e per paura di rappresaglie su altri ebrei. Scrisse
un biglietto a noi della famiglia affidandolo ad una
signora perché ce lo facesse pervenire. Quel
foglietto lo conservo ancora, c'era scritto: "noi
tutti siamo tranquilli, siatelo anche voi e fate ciò
che potete. Ci rivedremo presto, vi bacio, vi abbraccio,
Dio vi benedica".
200
persone erano passate nell'altra stanza per essere
interrogate e dopo tornarono in libertà. Ma
poi ci fu una cosa imprevista. Alcuni soldati chiesero:
"se fra voi ci sono dei cattolici di matrimonio
misto, passino nell'altra stanza".
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i partecipanti all'incontro
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la legge italiana, a differenza
di quella tedesca, affermava che bastava avere
un genitore cattolico e aver ricevuto il battesimo
prima della emanazione delle leggi razziali
per essere considerati cattolici. In Germania
era diverso: bastava che uno solo dei quattro
nonni fosse ebreo per essere considerati ebrei,
anche se da due generazioni erano battezzati.
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A questa seconda richiesta dei soldati,
la zia che era con mamma diede uno
spintone a lei e a mia sorella facendole trovare dall'altro
lato. Questa volta solo 7 persone riuscirono a passare.
Mia
sorella doveva far scomparire le carte di identità;
non potendo buttarle nei gabinetti, perché
quelli prima di loro avevano fatto la stessa cosa
- e i gabinetti erano tutti intasati -, strappò
i documenti facendoli a pezzettini piccoli e poi li
ingoiò senza un bicchiere d'acqua, per la forza
della disperazione. Al momento dell'interrogatorio
dei militari la mamma si inventò una storia:
che
lei aveva sposato un ebreo ma sua figlia di 19 anni
era cattolica dalla nascita. Durante un bombardamento
a Bologna la loro casa era stata distrutta e per questo
non avevano alcun documento. Sperava che il marito
si fosse salvato, ma non sapeva nulla di lui. Era
venuta a Roma in casa del fratello del marito, ebreo.
E per questo era stata presa con gli altri.
A
questo punto i soldati diedero un calcio alla loro
valigia ed esse si trovarono fuori dalla porta. Non
potendo tornare in casa degli zii dove c'erano stati
gli arresti, andarono da una signora conosciuta il
giorno prima alla ricerca di un lavoro per mia sorella.
E lì ci ritrovammo tutti e quattro: papà,
mamma, io e mia sorella. Rimanemmo in quella casa
per tre giorni in attesa dei documenti falsificati.
L'esercito
degli Alleati impiegò 9 mesi per giungere a
Roma, dopo i tanti combattimenti a Cassino, con tanti
morti.
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Delle 1230 persone prelevate la mattina
del 16 ottobre, dopo la liberazione di 207 persone,
erano rimaste in mano dei tedeschi 1023 ebrei. Essi
erano guardati a vista e nella notte tra
il 17 e 18 ottobre furono condotti dentro carri chiusi
alla stazione Tiburtina; quindi caricati dentro carri
merci, dopo quattro ore in attesa, sono partiti in
direzione di Auschwitz.
Erano
stati prelevati dai loro letti il 16 ottobre all'alba
e giunsero ad Auschwitz il 22 sera, di notte. Non
c'erano servizi igienici lungo il viaggio; con un
pezzo di
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ferro avevano fatto un buco nel pavimento
di legno dei carri. Giunti a destinazione
rimasero ancora per tutta la notte nei carri e il 23 mattina
li fecero scendere.
Un
militare delle SS li divideva in due categorie: quelli ritenuti
in grado di lavorare e quelli non in grado. Per lavorare
ne furono scelti 196, 149 uomini e 47 donne. Erano rimaste
827 persone, di cui 244 erano bambini sotto i dieci anni.
Nei registri di Auschwitz non erano registrati come persone
ma come "stücken" che vuol dire "pezzi".
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Il 23 ottobre stesso furono eliminati,
passando prima per le camere a gas
e poi nei forni crematori.
Queste
notizie le abbiamo apprese dalle poche persone che
sono tornate dopo la fine della guerra. Fino al termine
della guerra noi non sapevamo di questi campi di eliminazione,
pensavamo fossero campi di schiavitù.
Gli
alleati sono arrivati a Roma, dal Sud Italia, solo
il 5 giugno 1944.
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